Alla vigilia di Natale si andava a cercare un grosso ciocco di legna da ardere che doveva durare fino all’Epifania. Dopo la Befana se il ciocco non era arso del tutto, era posto ad incastro nell’oppio che era un albero dove veniva fatta arrampicare la vite. Questa tradizione veniva eseguita perché credevano che avrebbe protetto la vite dalla grandine.
Il presepe non si usava costruirlo in casa ma solo nella chiesa del paese, dove, alla Messa di mezzanotte, i bambini recitavano la poesia di Natale davanti al bambino Gesù che veniva poi baciato su un piede da tutti i presenti.
Non esistevano i regali, né l’albero di Natale. I bambini stavano raccolti intorno al fuoco dove i nonni raccontavano storie incredibili. Assicuravano che il ciocco di Natale era magico perché, battendolo tre volte, regalava castagne che comparivano magicamente davanti all’aiola. In realtà erano i grandi che, senza farsi vedere, le lanciavano. Si respirava ugualmente aria di Natale perché si mangiava meglio. C’era il brodo di gallina dove si facevano cuocere i passatelli; si mangiava il lesso e anche l’arrosto misto.
Alla sera si usava fare la veglia presso le famiglie che offrivano castagne, lupini e vino che venivano consumati mentre si giocava alle carte.
Ma, ahimè, i soldi non c’erano e quando si giocava a sette e mezzo si puntavano i bottoni!
Maròn e Giulia si sposarono probabilmente a Drogo il 4 Aprile 1921 con una cerimonia semplice, di campagna.
Matrimonio di Giulia e Tommaso
A quei tempi non si usava il classico vestito da sposa: si cuciva un vestito nuovo e un “zinàl”, una sorta di grembiule che copriva tutto il corpo, da quando si entrava nella casa della suocera. Non si usava nemmeno fare il viaggio di nozze. Ma Giulia e Tommaso lo fecero eccome, andando fino alla spiaggia di Fano a dorso di mulo!
Giulia e Tommaso a Fano, a dorso del mulo!
LA VITA insieme
I due sposi andarono a vivere nella casa del padre di Marón, a Ca’Betto. Tommaso lavorava come boscaiolo e bracciante in primavera e estate, mentre in autunno e in inverno si dedicava alla ricerca del tartufo.
Una zona particolarmente ricca dei pregiati funghi era quella di Sassoferrato. Per raggiungerla Marón partiva con il suo cane alle quattro del mattino, imbracciando la sua fedele “roscella”, la tipica vanghetta dei cercatori di tartufo. Una volta arrivato alla stazione di Pergola prendeva il treno in direzione Sassoferrato.
Il mio bisnonno a tartufi con il cane.
La roscella, la tipica vanghetta da tartufaro
In un giorno poteva percorrere dai 30 ai 40 km a piedi, compreso il viaggio andata e ritorno da Montescatto. Come vi ho detto, era un uomo forte e instancabile: al suo rientro Giulia gli diceva sempre: “Sciatón!” ovvero uno che fatica da morire.
La bisnonna lavorava invece in casa come sarta ed era molto brava. Uomini e donne venivano da lontano per farsi cucire i vestiti da lei. Giulia usava una macchina da cucire a pedale tedesca, la Dürkopp acquistata di seconda mano. Giulia cucì sempre con questa macchina, fino all’ultimo. Tra le tante cose che realizzava c’erano anche materassi di lana, guanciali e “imbottite”, ovvero trapunte di lana.
Giulia alla macchina per cucire
La Dürkopp di Giulia
Le ragazze di vari paesi andavano da lei per imparare il mestiere. A quei tempi le donne dovevano saper fare tante cose, tra cui anche confezionare vestiti: i vestiti già pronti potevano permetterseli infatti solo le famiglie ricche.
Verso la fine del 1921 nacque il loro primo figlio che chiamarono Ferdinando. Il bisnonno sentì dunque l’esigenza di avere una casa tutta loro e decise di acquistare un rudere sotto quella dei suoi genitori.
Iniziò a ristrutturarla insieme al muratore “Checch” di Monte Gherardo. Ricostruì tutti i muri (ce n’erano solo due e parzialmente crollati) cavando la pietra dal “Foss d’Gagialeta” e trasportandola con un biroccio preso in prestito. I “coppi” per i tetti (le tegole), i mattoni per i muri, i “madón” per i pavimenti e le “pianell” per i soffitti (i vari nomi dialettali indicano tipi diversi di mattoni) venivano realizzati dai “Fornaciari”, ovvero i proprietari della Fornace di Tarugo. Per murare usarono la “terra bianca” e non il cemento in quanto non era reperibile in loco. Per intonacare usarono la “calcina” prodotta localmente. Le finestre e il portone, probabilmente, furono realizzate da Ettore d’Brinon (famoso per aver mangiato un etto di pepe per scommessa).
Disegno del paese di Ca’Betto, come era una volta. A sinistra la casetta gialla di Tommaso.
Alla fine il bisnonno realizzò una casetta semplice e bella. A quel tempo nel paese era considerata una casa ”moderna”…. [continua nella parte terza].
Il mio bisnonno si chiamava Tommaso Isidori – classe 1895 – figlio di Amedeo ed Esterlinda. Aveva un fratello di nome Cesare e una sorella di nome Maria.
Era un uomo molto robusto e alto, sopra la media per quei tempi. E per questo tutti lo chiamavano Marón, accrescitivo del suo secondo nome, Mario.
Il bambino
Nacque in casa, come tutti in questa piccola comunità. Non conosco molto la sua infanzia: so che andò a scuola solo un anno dove imparò a fare le “stanghette”, le linee di base che poi creano le lettere. Non c’era tempo per i libri, per i bimbi di allora: anche loro dovevano aiutare la famiglia lavorando nei campi e accudendo le pecore. Ma il mio bisnonno non si perse d’animo e imparò a leggere e a scrivere da solo.
Il soldato
Poi scoppiò la guerra nel 1915 e partì soldato, attendente d’artigliera al servizio di un ufficiale. Fu distaccato nella zona del Piave: durante un attacco, una scheggia di bomba lo colpì ad una gamba provocando una ferita che non guarì mai completamente. Aveva anche una parte del lobo lacerata, e lui raccontava sempre che a provocarla era stata una pallottola passata troppo vicino all’orecchio.
Tommaso Isidori detto Marón, in uniforme militare
Titolo di Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto e medaglie militari
Una volta tornò in licenza a casa, ma trovò ad attenderlo un’abbondante nevicata. Da quelle parti non c’erano vere e proprie strade e la neve era così alta da non riuscire a passare. Ma lui non si scoraggiò. Dalla stazione di Pergola si mise in cammino, con la neve fino al petto. Dopo 11 chilometri arrivò a casa, stremato, bagnato e infreddolito. Gli scoppiò una polmonite e fu portato indietro all’Ospedale di Pergola, probabilmente su una “traggia” (vedi foto sotto), ma i dottori non nutrivano speranze per lui. Dopo una settimana però, con sommo stupore dei sanitari, si riprese.
La traggia (foto Regione Marche).
Contadini su una traggia (foto Paci Fossombrone).
Il bracciante
Finita la guerra ritornò al suo paese. Lì prese a lavorare a giornata come bracciante agricolo e taglialegna. Grazie alla sua forza e alla sua volontà, era molto richiesto per i lavori pesanti: pensate che tagliava le querceper costruire le traverse delle ferrovie!
I suoi strumenti di lavoro (zappa, pala e segone) erano il doppio del normale, per adattarsi alla sua corporatura alta e robusta.
Strumenti agricoli di Marón vs. strumenti agricoli di una persona normale: si può notare come la zappa e la pala del bisnonno fossero ben più grossi della norma, per adattarsi al suo fisico poderoso.
Un giorno, andando a giornata come bracciante si recò anche a Ca’Rio nel podere dei Marchetti. Lì conobbe quella che sarebbe diventata un giorno sua moglie: Giulia Marchetti.
Giulia
Giulia Marchetti
Giulia nacque nel 1895, figlia di Alfonso Marchetti e Teresa Pantaleoni. Aveva quattro fratelli e sorelle: Vittoria, Tito, Aldo e Emilia. Viveva nella frazione cagliese di Ca’ Rio, nel grosso podere acquistato dal padre, un segno di ricchezza per quei tempi.
Il padre aveva un fratello falegname di nome Luigi, sposato con una sarta, Agata. La coppia viveva a Frontone e non aveva figli. Da Agata vennero mandate tutte le sorelle Marchetti per imparare l’arte del cucito.
Cucire continuò a essere la professione di Giulia per tutta la vita. Era molto brava, abile nel ricamo, come si può notare osservando il suo corredo di nozze:
Corredo nuziale di Giulia Marchetti
Monogramma di Giulia Marchetti
Prima di conoscere Marón, Giulia era fidanzata con un altro ragazzo, che però morì nella Grande Guerra, nel 1917.
Dopo essersi conosciuti, Tommaso e Giulia decisero di sposarsi. Un aneddoto famoso nella mia famiglia riporta il dialogo avvenuto tra i due prima di sposarsi:
G: “Mèri, dovrai avé pazienza sa me, perché io so’ un po’ nervosa” T: “Beh, prega Dio che non ci prenda insieme!”